Martedì 4 agosto si è tenuta una lettura nei borghi del libro di Nicola Maestri, “Ti riporto a casa”, a cura di Officina Popolare Parma. L’intento era di costruire, non solo idealmente, un percorso che unisse luoghi e tempi simbolo dell’antifascismo, della dignità e della grande e varia umanità della nostra città.
È in queste strade che, dagli inizi del Novecento, pur parlando in una lingua di privazioni, iniziava a strutturarsi la consapevolezza di uguaglianza, diritti ed emancipazione. Ed è da queste strade che vogliamo ripartire dopo un momento di buio che ha colpito la nostra comunità, per tenerla unita nel nome di un’identità resistente, civile, costituita da sacrifici, dignità e anche da tanta bellezza.
Qui l’intervento di Elisabetta Salvini della Casa delle Donne di Parma.
«Mi ha sempre colpito questo bellissimo titolo: “TI RIPORTO A CASA”, perché a riportare a casa il corpo privo di vita di Eleuterio è LIVIA, una donna, una partigiana.
Mi ha sempre colpito perché Livia, oltre ad essere una donna e una partigiana è anche una moglie, una madre, una nonna, capace di incarnare in sé miti antichissimi e nuove forme di lotta e di resistenza, ma temo anche, millenari stereotipi, talmente radicati da non essere più nemmeno visibili.
Da sempre, infatti, le donne sono considerate casa, da sempre sono loro a riportarci in questa dimensione domestica, intima, privata, esattamente nello stesso modo in cui fisiologicamente possono fare cibo e dunque essere madri. Le donne dunque sono casa e rappresentano “naturalmente” la vita che si contrappone alla guerra e alla morte.
Si tratta di una divisione atavica e millenaria nella quale è intrinseca un’idea pericolosa e sbagliata che vorrei fosse ben chiara a tutti e tutte noi. Le donne sono casa non perché è naturale che lo siano. Le donne sono casa perché storicamente è stato loro imposto di esserlo.
Un’imposizione che viene da lontano e che il fascismo aveva normato, ribadendo la centralità della donna in una politica sessuale e familista nella quale essa contava non in quanto persona, ma in quanto “fattrice di figli”, “genitrice della razza italica”, “madre prolifica”, “moglie devota”.
Le donne erano “naturalmente” casalinghe non potevano né dovevano studiare o lavorare (dal 1923 al 1938 sono diverse le leggi emanate dal fascismo contro il lavoro femminile)
In quella netta divisione di ruoli e di schemi era inciso un destino femminile che le donne, nei secoli, hanno in tutti i modi cercato di riscrivere e sovertire. Una riscrittura che è tuttora in atto e che tutte e tutti noi sappiamo quanto sia difficile e mai lineare, perché, quando ci sembra di aver conquistato spazi, recuperato voce e diritti, vediamo quanto sia facile regredire in zone sempre più diffuse di fascismo vigliacco, di sessismo, di violenza e discriminazione.
Una volta chiarito questo, ecco che quel “RIPORTARE A CASA” delle donne diventa un gesto ancor più rivoluzionario e sovversivo. Livia come Antigone, viola le leggi della dittatura, pur di riportare a casa quel corpo senza vita, così come le donne della Resistenza, anche e soprattutto riprendendo il filo già steso delle donne delle barricate, hanno saputo aprire alla libertà e alla resistenza le porte delle loro case, quando aprire gli usci, sfamare, vestire, nascondere significava mettere a rischio la propria vita e quella dei propri cari. Quelle case sono diventate rifugi e luoghi politici, hanno perso la loro dimensione intima e privata per diventare luoghi pubblici, palestre di democrazia, officine di libertà.
Sono le stesse case dalle quali venti anni prima le donne hanno portato fuori tavoli e sedie per creare una barriera contro le squadracce nere e le stesse nelle quali le nipoti di quelle “barricadiere” si sono ritrovate negli anni Settanta per costruire insieme consapevolezza e nuove coscienze e per rivendicare per se stesse e per l’intera società che “il personale è politico”, così come politico è stato ogni piccolo, straordinario gesto delle donne che hanno resistito al nero imposto dal fascismo e hanno scardinato usci, ruoli, parole e destini.
Ogni gesto di “casa” si carica di una valenza politica capace di trasformare il silenzio delle donne in un nuovo urlo di libertà. È questo il MATERNAGE (l’estensione del ruolo materno all’intera collettività) e non ha nulla a che fare con il destino materno femminile né con l’idea tradizionale di famiglia e di nazione e di patria, perché allarga i confini, crea legami misti, diversi, pericolosi.
Il maternage è probabilmente l’agire politico che più fa paura, ciò che alcuni hanno deriso circoscrivendolo nel buonismo ed è la capacità di recuperare cura, umanità, INTERSEZIONE, attenzione e ascolto in un mondo perennemente in guerra. L’attenzione alla vita, in un mondo di morte, di violenza e di guerra. Una guerra voluta, fatta e combattuta dagli uomini e nella quale le donne sono entrate per sovvertire un ordine che non ha nulla di naturale ma tutto di culturale e patriarcale, per liberare se stesse e tutta la società da quella gabbia nera di confini, di prevaricazione ed esclusione.
Ecco perché ancora oggi i luoghi delle donne si chiamano CASE ed ecco perché sono ancora così essenziali nella nostra società!
Esserci oggi, in questi borghi dove le donne hanno imparato a riscrivere i loro gesti del quotidiano in un agire corale che ha portato alla conquista di una nuova libertà è importante. Così come è importante ricordare le “nostre” sovversive Alice Cesena, Ada Nicolosi, Rosa Pianforini o le donne che venti anni dopo, il 16 ottobre del 1941 – ben prima dell’inizio della Resistenza – sono state le prime a dare vita ad uno sciopero e lo hanno fatto gridando insieme: “Pane e Pace”.
Ed è importante ricordare sempre le “nostre” partigiane e noi lo facciamo riprendendo le parole di Laura Polizzi, che nei borghi dell’Oltretorrente ci è nata e ci ha vissuto e che ci ricorda perché le donne e gli uomini hanno vinto contro il fascismo: “Ho capito che avremmo vinto quando ho visto disfare il primo materasso per recuperare la lana e trasformarla in un maglione per un partigiano. In quella casa fredda, tra donne che non conoscevo. Ho capito che era solo questione di tempo e che quelle dita non si sarebbero fermate mai più. Sono Polizzi Laura di Secondo. Tutti però mi conoscono come Mirka. Partigiana combattente. Gli occhi che guardate sono i miei, ma vorrei che in loro poteste rivedere gli occhi di quella donna o di Kira, di Bianca, di Volontà o di Lia. E di tutte quelle di cui non ricordo il nome. Eravamo così tante che i miei occhi forse non bastano. Eppure guardateli, perché dopo i maglioni sono venuti i guanti e dopo i guanti il cibo e dopo il cibo il rifugio durante i rastrellamenti. La guerra non si vince solo con le armi. I tedeschi ed i fascisti lo sapevano bene. Ma c’era qualcosa di più forte del loro terrore e tutti sappiamo come è finita. Noi non ci siamo fermate ai guanti. Abbiamo combattuto con le armi. E pensate che ancora qualcuno si stupisce. Come quel colonnello quando si è visto davanti una commessa che gli chiedeva di consegnare le armi agli antifascisti. Quella commessa ero io. Avevo 19 anni e il giorno prima ero salita sul monumento di Garibaldi a Parma per invitare le ragazze e i giovani alla lotta armata. Era l’8 settembre del ’43 e noi avevamo capito subito che la guerra non era per niente finita. Non ci poteva essere pace con i tedeschi e i fascisti nelle nostre città. Noi volevamo la libertà. Mica la sognavamo. La volevamo e basta. Con ogni mezzo necessario. E ci siamo riuscite. E se ci sarà sempre qualche uomo che si stupirà, noi sappiamo che troverà sempre una Kira, una Bianca o una Mirka sulla sua strada. Quelle dita non si sono davvero mai fermate”».