Manifesto di botanica politica, il libro di Caridi racconta il Medio-Oriente attraverso gli alberi. Ispirata dallo scrittore Amitav Gosh che per “La maledizione della noce moscata” aveva identificato un vulcano come “agente della Storia”, l’autrice sposta gli umani dal centro della scena e ci mette gli alberi. A differenza nostra, scrive, essi, i nonumani, non si allontanano. Ancorati alla terra sono testimoni del tempo e delle vicende che si succedono. Sono gelsi, lecci, ulivi, palme, carrubi, sicomori, fichi d’India o alberi di arancio. Come il gelso del titolo, che l’autrice, tornando a Gerusalemme, trova ridotto a un moncone. Era bello un tempo e faceva parte, prima del 1948, quando ancora non era stato creato lo stato di Israele, del giardino di una villa appartenuta ad una famiglia palestinese. “Erano 7 gli alberi di gelso. Quattro con le more bianche e tre con le more rosse” racconta all’autrice un testimone che era stato lì bambino. “Andavamo a raccogliere i fichi dei sicomori dalle parti di Ashkelon quando ancora non era cominciata la storia dei permessi, la storia che gradualmente ci ha rinchiuso dentro Gaza” le racconta un altro. I sicomori, con i loro 40 metri di diametro; l’albero-piazza, presente un tempo in ogni villaggio palestinese e oggi quasi scomparso. O come gli agrumeti di Jaffa, l’antichissima, che per tutti i palestinesi è il simbolo della città perduta, le cui arance, dopo la ‘Nakba’, sono state risignificate, diventando israeliane. E così via, in un succedersi di testimonianze in cui il radicamento nella natura diventa per gli uni strumento di narrazione politica dell’appartenenza e per gli altri conferma della propria indigenità. Quella di cui si è fatto carico il Jewish International Fund, la più importante impresa sionista per il rapporto con la terra, che ha piantato al posto dei villaggi palestinesi conquistati, milioni di alberi. Sempre che l’interesse non sia invece quello di distruggerli, come succede quando il neocolonialismo, con la sua economia predatoria, avanza.
Consigliato da Letizia della Casa delle donne di Parma
