di Elisabetta Salvini

Il video dell’arrivo di Silvia Romano lo abbiamo visto tutti e tutte, dividendoci tra commozione e indignazione. Tra chi si è immedesimato in quella madre, chi nella sorella, chi nel padre e chi si è limitato ad osservare l’outfit di Silvia, alla ricerca di indizi che confermassero la tesi del: “cosa l’abbiamo liberata a fare”. Una tesi tanto ben costruita da indurre i sostenitori e le sostenitrici a sproloquiare in merito, trascurando le più elementari norme umane, prima ancora che grammaticali.

Sono più o meno tutti uguali quei commenti che trasudano odio, sessismo e totale assenza di empatia e trasporto. Si gioca a chi la spara più grossa tra rivendicazioni nei confronti di uno Stato che sperpera risorse per “una sporca musulmana”, a chi pretenderebbe che tutte le Silvie del mondo stessero zitte, in casa a fare figli e a servire i propri mariti. E a scrivere sono uomini e donne, indistintamente.

C’è un sessismo che impregna ogni singola lettera digitata sulla tastiera. Un sentimento di disprezzo e disgusto nei confronti della libertà e dell’autodeterminazione di una donna che, con forza e consapevolezza, ha scelto di costruire il suo futuro, rinnegando percorsi di comodo.

Chissà se gli haters rinfaccerebbero con la stessa voracità verbale ai Missionari la loro scelta di aiutare le popolazioni africane, anziché i vecchietti dell’ospizio dietro casa? Sarebbe un interessante esperimento sociale. Così come sarebbe stato altrettanto curioso vedere come tutti questi ferventi cattolici avrebbero reagito se Silvia avesse dichiarato di essersi convertita al cattolicesimo. Tuttavia non è questo che conta.

Ciò che deve colpire l’immaginario lo ha scritto Clara Foglia, della Casa delle donne di Parma e mi piacerebbe condividerlo, per provare ad offrire un altro punto di vista. Uno squarcio di femminismo, in mezzo al sessismo e alla violenza verbale a cui stiamo assistendo in queste ore

Ciò che deve colpire, infatti, è il gesto scelto da Enzo Romano, il quale, dopo essersi stretto a sé la figlia, si è spostato di lato, facendo in modo che Silvia e tutti i presenti lo vedessero bene e si è inchinato a lei, alla sua forza, e alla sua libertà.

Il padre ha accettato dapprima di stare in secondo piano, un passo indietro rispetto alla moglie e alla figlia, al cospetto di tutti i simboli e le incarnazioni del potere maschile costituito: il Presidente, il Ministro, gli uomini dell’Aeronautica, dell’Esercito e dei Servizi.

Poi ha aspettato che Silvia arrivasse, e che per prime abbracciasse la madre e la sorella, e ha saputo attendere che fosse lei ad andare verso di lui e non il contrario. E, quando finalmente è stato il suo momento, ha compiuto un gesto potentissimo, inchinandosi davanti a tutti e tutte, davanti alle telecamere, e soprattutto davanti a sua figlia.

Non solo come forma di rispetto, ma, in modo ancora più radicale e non scontato, per riconoscere un “di più” a quella figlia straordinaria che ha saputo dimostrare di possedere una forza maggiore persino di tutti gli apparati del potere maschile lì dispiegati.

Un gesto consapevole e forte, che ha un grande valore simbolico pubblico e non privato, come lo stesso Enzo Romano ha rivendicato. Pubblico perché l’accoglienza a Silvia, lì a Ciampino, non era affatto una questione privata, ma un grande abbraccio collettivo e di Stato.

In un attimo quel padre ha scardinato tutte le narrazioni precostituite: gli uomini potenti che salvano le donne deboli e in pericolo, i padri – e le loro leggi – che sono i più importanti, e che quindi stanno sempre in primo piano. Con il suo gesto di inchinarsi, in modo immediato ed evidente, il papà di Silvia ha voluto sottolineare che gli uomini non sono più gli scontati protagonisti della storia. L’eroismo e l’autorevolezza si sono spostati dalla parte di una giovane ragazza, finalmente libera. Ieri è stata la libertà femminile che è diventa istanza a cui inchinarsi, e davanti a questo non c’è niente altro da aggiungere.

Pubblicato su Huffingtonpost.it l’11 maggio 2020.