Il libro è il racconto dell’esperienza di Michela Murgia presso un call center di Oristano dove nel 2006
lavora per un breve periodo con un contratto a progetto: “230 euro lordi al mese e 6 euro lordi per
ogni appuntamento”. 30 giorni che le bastano per rendersi conto di quanto quel luogo di lavoro
profondamente ingiusto sia solo uno degli esempi da aggiungere a una condizione molto più diffusa
e da lei sperimentata per anni. In un’intervista dirà: “Non sono soddisfatta della piega che sta
prendendo la cosa ossia che il call center sia stato assunto a paradigma del precariato perché di solito
sono situazioni più prestigiose a vivere di precarietà. E questo aggrava la cosa per chi pensa di avere
raggiunto in questo modo il massimo delle sue possibilità”.
Uscito in prima battuta sotto forma di blog, il testo è volutamente scritto con un’ironia feroce,
sfrenata, attingendo a un materiale vivo che l’autrice acutamente racconta, in un momento in cui la
scrittura le sembra l’unico mezzo a disposizione per rispondere a qualcosa “contro la quale
nessun’altra reazione sembra possibile”. Dei vari personaggi a cui assegna nomi inventati ma che
rendono l’idea, Hermann, Sigmund, Paperina, Shark, BillGheiz, Murgia non ha pietà. A differenza di
quanto invece ha nei confronti di chi i ricatti li subisce, in quel luogo in cui le interviste manipolatorie,
il mobbing, i raggiri psicologici sono all’ordine del giorno. Divertente e dal linguaggio scorretto, non
piacerà a chi vuole moderazione.
A undici anni dalla prima pubblicazione di queste pagine, Murgia scrive: “Rileggere oggi le pagine
che scrissi può strapparmi un misero compiacimento per la capacità che avevo di ridere davanti al
baratro, ma solo questo perché, nel frattempo, non ha smesso di essere vero che la mia generazione,
insieme a pensione, diritti e stabilità, in quegli scantinati invisibili alla politica, si è persa, giorno dopo
giorno, anche il futuro”.
Consigliato da Letizia della Casa delle donne di Parma