“Mamma, non ero lì a ricoprire il tuo corpo, io, e mi restano soltanto delle parole – parole di una lingua che tu non capivi – per compiere ciò che avevi chiesto. Sono sola con le mie misere parole, e queste frasi, sulle pagine del quaderno, tessono e ritessono il sudario del tuo corpo assente”.
In questo delicato memoir l’autrice rende omaggio a sua madre Stefania e alla sua terra di origine, il Ruanda, alla vigilia del genocidio. Stefania è il suo nome di battesimo. Non conosceremo il suo nome ruandese, quello, cioè, che viene assegnato dal padre alla nascita e che ha sempre un significato premonitore. È il racconto della sua quotidianità di donna, madre, moglie. Ha camminato per tutta la vita a piedi nudi, non ha mai imparato a leggere ma è una saggia consigliera per i figli e le amiche e ha un unico scopo: salvare i propri figli dalla furia degli hutu. Loro, i tutsi, sono stati deportati nella regione del Bugesera. Qui cercano di ricreare un ambiente che ricordi le loro dimore e Stefania si costruisce la vera capanna ruandese, l’inzu. Nel retrocortile le donne si lavano, ricevono le amiche, preparano le strategie matrimoniali, fumano la pipa. C’è lo stupore davanti ad alcune abitudini dei bianchi portate dalle ragazze che studiano nei collegi delle suore: l’uso della biancheria intima, il water, la tinta per i capelli! Stefania, Marie-Thérèse, Guadenciana, Speciosa, Anasthasia e molte altre sono le custodi dell’esistenza, quelle che gli assassini hanno ammazzato come se “volessero eradicare le fonti stesse della vita”. Un racconto amorevole sul quale aleggia la consapevolezza di quello che succederà, rendendo la lettura potente e commovente. Sappiamo che dopo la fuga in Burundi nel 1973, la scrittrice si è stabilita in Francia da dove nel 1994 ha avuto notizia del massacro in Ruanda, che le ha sottratto ben 37 membri della famiglia.
Consigliato da Giovanna della Casa delle Donne di Parma
